Brand washing


Un brand è un nome, un segno grafico, un simbolo o una combinazione di questi, che serve a identificare i prodotti o i servizi offerti da un’azienda e a differenziarli dai loro concorrenti. Nasce per distinguersi tra la folla, per essere percepito dai consumatori come unico, innovativo e dinamico, “per trasmettere qualcosa di fenomenale, inatteso, entusiasmante e assolutamente incredibile che è dentro il prodotto.” [Seth Godin – guru del marketing, scrittore di successo -, “La Mucca Viola”, Sperling & Kupfer, 2004].

Tra le molteplici definizioni di “brand”, tra le più comuni c’è quella dell’American Marketing Association, per cui “un brand è una customer experience rappresentata da un insieme di immagini e idee; spesso fa riferimento ad un simbolo come un nome, un logo, uno slogan ed uno schema di design. Il riconoscimento del brand ed altre reazioni sono create dalla raccolta delle esperienze con lo specifico prodotto o servizio, sia direttamente legata al suo utilizzo, sia attraverso l’influenza della pubblicità, del design e dei commenti dei media” [http://www.ama.org/resources/pages/dictionary.aspx?dLetter=B].

Per i consumatori, il brand esercita funzioni molto importanti, in quanto non solo identifica la fonte o il produttore di un bene o servizio, ma diventa un mezzo di semplificazione per le loro scelte.

Kevin Lane Keller – leader internazionale nello studio e nella gestione strategica del brand – afferma infatti che “il potere del brand proviene da ciò che risiede nella mente dei consumatori”.

Pertanto, garantire le aspettative, la fiducia e la reputazione create intorno al prodotto o servizio offerto, sono operazioni di elevata complessità, in cui le imprese impiegano importanti risorse sia in attività di marketing, sia in azioni di brand-building.

Ma la vita di un’impresa, indipendentemente dalle sue dimensioni, è fatta di fasi positive e negative, ovvero si dipana nella continua alternanza di periodi di successi e momenti di difficoltà. Questioni con la qualità dei prodotti/servizi quando costituiscono, ad esempio, una minaccia per l’incolumità o la salute dei consumatori; problemi etici; scandali manageriali; ecc.: tutti fattori che possono mettere a rischio la reputazione dell’azienda, determinando la sua sopravvivenza o, addirittura, la fine della sua attività.

Quando si crea un disallineamento tra i valori che l’organizzazione promuove (espoused values) e quelli effettivamente perseguiti e messi in pratica (values in use), è facile generare confusione ed incertezza tra i clienti e gli stakeholder di riferimento, portando ad un’erosione della reputazione dell’azienda: le associazioni positive perdono la propria forza, lasciando il posto alle associazioni negative.

Nei casi più gravi, addirittura, non sono esclusi i cambiamenti strategici o la reinvenzione del corporate brand. Tali mutamenti richiedono decisamente sforzi e investimenti importanti da sostenere.

Secondo quanto riportato nei giorni scorsi (prima sui siti internet specializzati in aviazione e poi in quelli generalisti), della compagnia low cost di Lufthansa coinvolta nel disastro sulle Alpi francesi lo scorso 24 marzo, non resterà più alcuna traccia. Il sito web Germanwings, con il personale di bordo, entro la fine dell’anno verrà dirottato su quello Eurowings, (compagnia aerea regionale di Lufthansa). Sono già in corso le modifiche sui codici di volo e poi cambieranno anche le livree degli aerei.[http://www.corriere.it/economia/15_maggio_06/addio-marchio-germanwings-lufthansa-riassetto-low-cost-ad9bbf7a-f3cf-11e4-8aa5-4ce77690d798.shtml]

Per ogni tipologia di crisi l’azienda deve essere sempre pronta ad attuare un piano di gestione e di intervento.

Spesso, per superare l’ostacolo, è sufficiente attualizzare strategie di brand washing (lavaggio di coscienza del brand).

Nell’era di internet, dei social network e dell’enorme mole di informazioni che i consumatori possono condividere, il mancato rispetto delle promesse può portare ad effetti a volte devastanti.

Le notizie si diffondono sempre più rapidamente e considerando che solitamente le cattive notizie viaggiano molto più velocemente di quelle buone, sul web l’effetto è quello di una immediata espansione a macchia d’olio, molto difficile da gestire se non si è adeguatamente preparati.

Ad esempio, inserendo una parola chiave – o magari proprio il nome di una marca – nei motori di ricerca on-line, può capitare di trovare l’elenco dei risultati invasi da notizie spiacevoli che la riguardano.

Fare pulizia di queste cattive notizie, riducendone la visibilità, non cancella i risultati negativi, ma tende a “seppellirli”, attraverso la sostituzione con le informazioni positive, magari realizzate proprio per tale scopo.

Inoltre, se è vero che un giornale, il giorno dopo, è buono solo per incartare il pesce, grazie all’indicizzazione dei contenuti sui motori di ricerca, un evento può restare attuale anche per anni.

Infatti sono passati circa quindici anni da quando la Nike, il più grosso sponsor di avvenimenti sportivi nel mondo, fu accusata di sfruttamento della manodopera infantile in Cambogia. Per il brand Nike, minacciato dal boicottaggio dei consumatori politically correct, contro il dumping sociale, la delocalizzazione delle produzioni industriali verso paesi con bassi salari e nessuna legislazione del lavoro, la macchia era indelebile.

La multinazionale americana, per limitare i danni, decise di cancellare tutti i contratti con i suoi fornitori cambogiani. Solo dopo due anni è tornata in Cambogia, ma esclusivamente in quelle fabbriche che hanno aperto i controlli all’Organizzazione Internazionale del Lavoro e che si sono impegnate a debellare la piaga sociale dei bambini-operai.

Dopo la catastrofe del regime dei Khmer Rossi e una guerra civile terminata 20 anni fa, la Cambogia era da ricostruire. Il merito va ai grandi marchi stranieri [come Levi’s, Adidas, H&M o Nike] che hanno intensificato la loro produzione proprio in quella zona e, così, hanno “riscritto la storia”…

 

[Stefania Giuseppetti per AZ Franchising]