Il brand al servizio del benessere della società


Il tema di come costruire il nostro futuro su basi nuove è, ormai, la scommessa da vincere e, in questo, cultura e creatività sono fattori fondamentali.

Per le aziende non è più possibile orientarsi solo al mercato: anche loro fanno parte della società e del mondo, con le stesse responsabilità dei consumatori. Responsabilità che si traducono in originali strategie di marketing finalizzate alla crescita e al vantaggio competitivo, ma con l’obiettivo di migliorare e tutelare la società ed il pianeta.

Infatti, l’impresa non è più percepita come semplice attore economico all’interno del mercato, ma come protagonista nel contesto sociale, capace di assumersi una responsabilità che la politica non è in grado di risolvere.

Pertanto, traghettare la produzione verso l’epoca dell’economia circolare è tra le sfide da accogliere e un’opportunità per i brand di rinnovarsi e ripensare al modo in cui vivono ed operano nella società, al fine di instaurare un rapporto empatico ed autentico con il consumatore.

Ed è proprio la figura del consumatore che, con le sue decisioni di acquisto e i suoi comportamenti di uso e di post-consumo, partecipa attivamente a costruire l’offerta di quei beni e servizi di cui fa domanda, contribuendo a promuovere o a bocciare un prodotto/servizio in base a criteri globali di posizionamento. È ormai superata la competizione attraverso la CSR (Corporate Social Responsability) e le campagne di comunicazione di facciata; per i brand è arrivato il momento di agire, di passare all’azione, prendere posizioni, raccontare i propri valori e adoperarsi concretamente per lo sviluppo della comunità nella quale operano.

Questioni ambientali, sociali e politiche, come i diritti umani, discriminazioni, pari opportunità, riscaldamento globale, emergenza climatica, sono diventati temi fondamentali su cui ogni azienda è chiamata a rispondere, nonostante il rischio di mettere in gioco la propria reputazione, poiché schierarsi significa anche esporre il fianco alle critiche di chi non condivide lo stesso scopo.

Come ha affermato da Philips Kotler nel suo ultimo libro dal titolo “Brand activism. Dal purpose all’azione”, scritto a quattro mani con Christian Sarkar, “le aziende devono avere una responsabilità sociale. […] Oggi non basta avere un «purpose» nobile. Ciò che conta ora è l’azione, come il brand vive e agisce nel mondo reale. Perché sia l’azione sia la mancanza di azione sono segnali ai consumatori e all’intera società. Azione che serve ad annullare il “say-do gap”, ovvero la distanza esistente tra il dire e il fare.

L’impronta civica del brand è la nuova leva del processo d’acquisto. Lo dimostra una ricerca dell’Osservatorio Civic Brands, il progetto editoriale che racconta l’impegno sociale delle aziende e dei brand in Italia. Realizzato in collaborazione con Ipsos, evidenzia che circa il 40% degli intervistati (popolazione adulta italiana) aderirebbe volentieri ad un’iniziativa in ambito sociale, culturale, ambientale volta a migliorare la propria comunità o realtà in cui vivono, promossa da una marca o da un’azienda. Più di un italiano su tre è fortemente convinto che se una marca o azienda vuole davvero impegnarsi in ambito sociale, ambientale, culturale, politico, deve passare attraverso il coinvolgimento attivo di cittadini e consumatori. E questo potrebbe portare benefici anche alla marca stessa, dato che il 36% degli intervistati si dichiarano potenzialmente più propensi ad acquistare prodotti di un brand che li ha coinvolti in iniziative di valore sociale. Lush Cosmetics per contrastare il Climate Change, il 23 settembre del 2020, nel giorno in cui le Nazioni Unite Si riunivano per definire le azioni per il clima, ha aderito a favore degli scioperi promossi da Greta Thunberg, scegliendo di sensibilizzare la propria clientela al problema attraverso la chiusura dei propri negozi. Un altro esempio di civic brand è la campagna “Stop hate for profit”: una vera e propria presa di posizione, contro un colosso del web sulla questione del razzismo. Nata negli Stati Uniti a seguito della morte di George Floyd, ha portato migliaia di inserzionisti di Facebook, come Coca-Cola, Unilever e Starbucks, a sospendere temporaneamente la pubblicità dei propri prodotti per convincere la piattaforma Social ad affrontare il tema del razzismo.