Il brand diventa “personal”


Un brand è un nome, un segno grafico, un simbolo o una combinazione di questi, che serve a identificare i prodotti o i servizi offerti da un’azienda e a differenziarli dai loro concorrenti. Nasce per distinguersi tra la folla, per essere percepito dai consumatori come unico, innovativo e dinamico, “per trasmettere qualcosa di fenomenale, inatteso, entusiasmante e assolutamente incredibile che è dentro il prodotto.[1]
Nessuno meglio di un franchisor sa quanto sia importante il brand, non solo per differenziarsi, ma anche per facilitare la crescita e l’espansione dell’azienda, nonché per trasmettere i propri valori, tanto ai franchisee quanto al cliente finale.
Ma qualsiasi cosa un’azienda sia in grado di fare, può realizzarla solo grazie alle persone. E le persone possono fare la differenza.
Da qui l’idea di brand aziendale che dai prodotti o servizi si estende fino a coloro che nell’azienda lavorano, a chi lo rappresenta e contribuisce a stabilire nella mente dei consumatori immagini e valori istantaneamente ricollegabili al suo nome.
Da qui l’idea che il personal brand[2] possa essere inteso non solo come l’arte di vendere se stessi – indispensabile per comunicare e promuovere il proprio valore unico all’azienda in cui si lavora, per ottenere una promozione oppure un nuovo incarico -, ma anche come sinonimo di prodotto o servizio aziendale, considerato che i clienti riconoscono nei loro interlocutori il “volto pubblico” dell’offerta.
In fondo l’attrazione verso un prodotto o servizio è spesso generata da caratteristiche non oggettive e non materiali rispetto al prodotto o servizio stesso.
Più valore informativo si trasmette, più credibilità si ottiene. E offrire la propria competenza è una delle armi della persuasione più forti che esista.
Sebbene di self-branding e di brand individuale se ne sia parlato nel libro del 1980 “Positioning: The Battle for your Mind”, scritto da Al Ries e Jack Trout[3], l’idea di riferirsi al brand come “personal” nasce negli Stati Uniti alla fine degli anni ’90. A raccontarlo per la prima volta è Tom Peters – economista americano e autore di bestseller sul management del lavoro – il quale, nel 1997, in un suo articolo intitolato “The brand called you” [“Il marchio chiamato te”], scriveva: “Big companies understand the importance of brands. Today, in the Age of the Individual, you have to be your own brand. Here’s what it takes to be the CEO of Me Inc.” [“Le grandi aziende hanno compreso l’importanza dei marchi. Oggi, nell’era dell’individuo, devi essere marchio di te stesso. Ecco quello che serve per essere il CEO di Me”].
Conoscenze e know how specifici, competenze, esperienze, talenti, abilità, passioni e personalità vengono valorizzati per costruire una reputazione personale e una visibilità professionale dentro e fuori l’azienda.
Analizzando più a fondo il significato di personal brand, scopriamo che non si limita all’aspetto, all’abbigliamento, oppure alla conoscenza, ma a tutta la rappresentazione del ”sé” e all’impressione globale che distingue gli individui. In questo contesto entrano in gioco fattori come il “carattere”, l’insieme di attributi e valori personali che rappresentano “chi sei”, e la “reputazione”, ovvero il “carattere” visto dalle altre persone, tanto difficile da ottenere quanto facile da perdere.
Qualsiasi brand, personale o non, ha bisogno di parecchio tempo per essere inquadrato, per far capire quanto vale e per essere conquistato.
Il valore del personal brand è anche quello di fornire alle persone il potere di influenzare le decisioni e le attitudini dei clienti, nonché ispirare confidenza in essi, stabilendo una relazione positiva e di fiducia.

[1] Seth Godin (guru del marketing, scrittore di successo), “La Mucca Viola”, Sperling & Kupfer, 2004

[2] Wikipedia – http://it.wikipedia.org/wiki/Personal_branding

[3] Wikipedia – http://it.wikipedia.org/wiki/Personal_branding

[Stefania Giuseppetti per AZ Franchising]